Arancia Meccanica è un’opera che di certo non ha bisogno di grandi presentazioni. Il progetto di portarla in teatro è nato oltre un anno fa per volontà del nostro Alfredo Scorza, che ha curato un adattamento teatrale del romanzo di Anthony Burgess approvato della International Anthony Burgess Foundation di Manchester. Alfredo ha firmato anche la regia dello spettacolo. Abbiamo deciso di intervistarlo, con 10 domande.

 

1. Cosa ti è saltato in mente quando hai deciso di mettere in scena Arancia Meccanica?

Mi è saltata in mente una sfida. Una follia. In realtà un brutto sogno, ma che non riuscivo a ignorare. C’era qualcosa di magnetico in quell’universo: la lingua, la violenza estetizzata, la domanda sull’essere umano. Non c’è una ragione specifica che riesca a formulare razionalmente, e proprio per questo ho detto sì prima di rendermi conto di quanto fosse difficile. Classico errore da innamorato.

 

2. Cinema, letteratura, teatro: Arancia Meccanica ha girato parecchio. Cosa succede quando finisce su un palco, con attori in carne e ossa?

Succede che diventa carne, appunto. Il teatro toglie quel filtro patinato del cinema e ti mette davanti a una cosa viva, sudata, pulsante. È come se ti legassero a una sedia con gli occhi spalancati (ogni riferimento è puramente voluto) e ti dicessero: guarda, senza tagli, senza montaggio. Solo esseri umani. E quindi sei costretto a fare i conti.

 

3. Alex: criminale, poeta, anti-eroe… o tutto insieme? Come hai lavorato con l’attore per costruire questo cocktail molotov di umanità?

Con molta pazienza e molto Beethoven. Abbiamo lavorato molto sull’improvvisazione, sia con Filippo che con il resto del cast; volevamo qualcosa che non ignorasse completamente il riferimento filmico, anche per non disorientare il pubblico, ma che andasse comunque oltre. Sono cose che si creano col tempo, tante piccole sfaccettature impilate una sull’altra. Alex è uno specchio rotto: ogni frammento riflette una cosa diversa. È un personaggio complesso, ma una cosa è chiara: è un malvagio. Anzi è la malvagità carnificata. Talmente pura che diventa suadente e affascinante.

 

 

4.⁠ ⁠La violenza è centrale nell’opera, ma cosa succede sul palco? Si mostra? Si suggerisce? Si filtra? Si balla sulle note di Beethoven mentre si prende a sediate qualcuno?

La violenza in questo spettacolo non si limita a sfiorare: morde. Sconfina nell’horror, lascia cicatrici, nel senso più viscerale e disturbante del termine. Parlo di un linguaggio visivo e sonoro che ti entra sotto pelle. L’ispirazione trae in parte da Gaspar Noè e da quel cinema che sa picchiare forte, ma andare a distinguere tutti i riferimenti sarebbe difficile. Una cosa è certa: volevo che emergesse il tratto più concreto della malvagità dei protagonisti di quest’opera. Esistono un’infinità di modi di mettere in scena la violenza: si può pensare a Tom e Jerry, a Bud Spencer e Terence Hill, a Tarantino, a Park Chan-Wook, a Scorsese e a Spielberg. Ne ho scelto uno che non cercasse delle scuse, che non rendesse glamour le azioni dei drughi e che, soprattutto, non lasciasse scampo al pubblico. È un bell’equilibrio da rappresentare: riuscire a mantenere una certa umanità in tutti i personaggi eppure eliminare la possibilità di dire che in fondo non avevano tutti i torti.

 

5.⁠ ⁠Hai dovuto affrontare la famigerata lingua “nadsat”. Come avete fatto a renderla comprensibile senza sottotitoli? Oppure ci affidiamo al potere del contesto?

Un po’ come Shakespeare, no? All’inizio sembra alieno, poi cominci a cogliere ritmo, logica, musicalità. Il pubblico non deve capire ogni parola, deve sentire l’energia. Abbiamo lavorato molto sulla corporeità della lingua, sul tono, sul gesto. E quando il contesto è forte, il cervello capisce da solo. È come imparare una lingua ascoltandola da bambini. Solo con più parolacce.

 

 

6.⁠ ⁠La scenografia: cosa ci dobbiamo aspettare? Minimalismo esistenziale o distopia in technicolor?

Tutte e due. È un mondo spezzato, contraddittorio. C’è il bianco accecante degli ospedali, i contrasti espressionisti della prigione, e poi flash di colori iperrealistici, quasi fumettosi. Qui devo ringraziare i nostri storici scenografi: Umberto, Stefano, Michele e Jacopo Cinquini, che hanno fatto l’impossibile. L’essenziale, ma mai piatto. E con qualche sorpresa che non anticipo.

 

7.⁠ ⁠Arancia Meccanica è stata scritta più di 60 anni fa. Il mondo è cambiato (forse). In che modo lo spettacolo parla al pubblico di oggi, tra social, algoritmi e altre forme di controllo?

Guarda, oggi non serve la Cura Ludovico per addomesticarci. Basta un algoritmo. Burgess parlava di controllo, di manipolazione, di scelta. Oggi viviamo dentro quei temi. I social ci fanno credere liberi mentre ci etichettano, ma forse ci etichettiamo da soli con ogni post, foto e immagine che pubblichiamo. È uno specchio scomodo per noi, pieni di profili, ma senza volto.

 

8.⁠ ⁠In questa versione teatrale c’è qualcosa per cui Burgess o Kubrick si metterebbero le mani nei capelli? O magari qualcosa per cui ti direbbero: “Ehi! Questo avremmo voluto farlo anche noi!”?

Penso che mi stiano già aspettando con le mazze ai cancelli dell’aldilà. Però se non si mettessero le mani nei capelli vorrebbe dire che avrei sbagliato qualcosa! Ma spero anche ci siano momenti in cui direbbero: “Ehi, non male questa trovata!”. Forse con la Cura Ludovico abbiamo fatto una cosa diversa che gli sarebbe potuta piacere.

 

 

9.⁠ ⁠Se dopo lo spettacolo qualcuno si sente vagamente turbato, è una vittoria o un effetto collaterale?

È un biglietto pagato bene. Il turbamento non è un difetto, è un inizio. Se uno esce e si sente confuso, inquieto, stanco… vuol dire che il teatro ha fatto il suo. Shakespeare turbava. Orson Welles turbava. Se penso a Cani Arrabbiati di Mario Bava, ci sto ancora male. Il teatro è una scossa. Magari lieve, ma che resta.

 

10.⁠ ⁠Dai, convincici: perché dovremmo alzarci dal divano, uscire di casa e venire a vedere questo spettacolo?

Perché ogni tanto bisogna mettersi nei guai. Perché questa non è una replica del film, né una lettura improvvisata. È un esperimento. È un’esperienza viva. Sporca, poetica, pericolosa, a tratti assurda. E perché il palco non mente: quello che succede lì, succede davvero. Niente tagli. Solo carne, sangue e Beethoven. E magari, se va bene, qualche brivido lungo la schiena.

 

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